Un quadro drammatico e desolante, vero, quello che viene rappresentato nell’articolato rapporto “Mafie nel Lazio”, redatto dall’Osservatorio Tecnico-Scientifico per la Sicurezza e la Legalità della Regione Lazio, presentato, alcuni giorni fa, alla Casa del Jazz a Roma. E’ forte l’impatto emotivo di questo accurato “riepilogo” della criminalità, scaturito, soprattutto, dalle numerose inchieste giudiziarie, alcune concluse, altre in corso, degli ultimi anni, sia nella capitale che in altre realtà della provincia romana. Rimettere insieme, ordinandoli, tutti i numerosi tasselli di un puzzle della criminalità organizzata, a volte violenta, spesso silenziosa,  rilevare che diversi quartieri della capitale sono nelle mani delle famiglie mafiose (tradizionali) e di altre “originarie e originali” romane non può non destare grande preoccupazione  negli apparati pubblici della sicurezza. E  nella politica. Per i cittadini che hanno letto il  rapporto  stati d’animo di ansia e di paura. Comprensibili e legittimi, perché non è entusiasmante sapere che “..nella capitale e nel territorio della provincia di Roma incidono circa 76 clan (delle 92 organizzazioni criminali censite nel Lazio, n.d.r.), 23 dei quali sono  dediti al narcotraffico in diversi quartieri che compongono il territorio capitolino” ( nei primi sei mesi del 2016, secondo dati, provvisori, della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, a Roma e provincia le forze di polizia hanno sequestrato già circa due tonnellate di stupefacenti). Gruppi criminali non solo espressione della cosiddetta”malavita romana” (spacciatori, rapinatori, manovalanza predatoria), ma presenze pluriennali di ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra, oltre a mafie partorite grazie anche ad un tessuto socio-politico-istituzionale-economico sfacciatamente complice e corrotto. C’è da chiedersi come sia stato possibile per tutta questa “gentaglia” scorazzare impunemente, per tanto tempo, senza trovare una particolare resistenza e senza incontrare quegli “anticorpi” sociali che avrebbero potuto contrastarne l’avanzata. Lo specifico mafioso, si sa, consiste essenzialmente in organizzazione, complicità e connivenze. Ma sono state troppe anche le ambiguità, gli ammiccamenti, le sottovalutazioni, i ritardi e le superficialità: altrettanti regali alle mafie, in buona fede o per timidezza, per ignavia o viltà, o anche solo per miopia.

Associazioni mafiose stanziali e ben radicate, dunque, non solo “soldi delle mafie”  a Roma (l”ipotesi “negazionista” sostenuta in passato da alcuni analisti ed esponenti politici) riconducibili, quindi, al delitto ex art.416bis del c.p. e non semplice associazione a delinquere ( la tesi “riduzionista”). Solido, sino ad oggi, l’impianto accusatorio della Procura della Repubblica di Roma che, con la professionalità e tenacia del suo capo Pignatone e dell’aggiunto Prestipino, hanno saputo imprimere la svolta decisiva a indagini svolte, in precedenza, sempre in modo frammentario, forse perché non conveniva far risaltare lo “scenario criminale complesso” ( peraltro non ancora definito) nel territorio romano, “terra di investimenti privilegiati”. Un ambito territoriale, si legge nel rapporto, in cui le mafie classiche sono “..principali garanti..di pace armata fra i clan (…) intervengono per risolvere  eventuali conflitti con un occhio alla rapida ascesa dei clan autoctoni” i quali, pur rispettosi della supremazia criminale della mafia calabrese, siciliana e di quella napoletana, non hanno assunto nei loro confronti “..da quel che emerge nelle inchieste, un posizione subalterna”. Devastante il profondo inquinamento da parte della delinquenza organizzata,  non solo a Roma ma anche nel resto della provincia ( e della Regione) , con le cittadine di Anzio, Nettuno, Velletri, Aprilia, Marino,Tivoli, Guidonia, Acilia, Ardea, divenute ambiti territoriali contaminati dalla “piazza romana”, dove il narcotraffico rappresenta il principale mercato illecito. In questa cornice fanno “affari” anche gruppi criminali stranieri, in primis nigeriani, albanesi, cinesi, georgiani e moldavi. Insomma, una situazione generale che ha spinto il procuratore aggiunto Prestipino a fare un appello,  in occasione della presentazione del rapporto in questione, auspicando “..un maggiore impegno della politica e della pubblica amministrazione, perché senza di quell’impegno tutto quello che noi facciamo resta vano”. Un appello che resterà, come spesso accade, purtroppo inascoltato.

 

di Piero Innocenti
(Dirigente generale della Polizia di Stato a riposo, Questore in alcune importanti città italiane ha avuto una pluriennale esperienza nella Direzione Centrale per i Servizi Antidroga svolgendo anche servizio in Colombia come esperto).